Posts filed under 'Processi Alimentari'

Il pane al kefir si conserva più a lungo

 

Il pane è uno degli alimenti cardine della dieta mediterranea e pertanto dovrebbe essere sempre presente sulle nostre tavole insieme alla pasta, anche se alcuni nutrizionisti consigliano di ridurne il consumo per non alterare troppo i valori della glicemia. Il pane dunque non può che aumentare il proprio grado di diversificazione con uno sguardo alla conservabilità dello stesso. Infatti il pane tende a perdere gran parte delle proprie proprietà sensoriali troppo rapidamente dall’acquisto. Un gruppo di ricercatori greci hanno dimostrato come aggiungere il kefir alla preparazione del pane possa incrementare la conservabilità ma anche la variabilità sensoriale dello stesso. Il kefir e una bevanda molto nota nelle zone dell’ex Unione Sovietica e si prepara a partire dal latte di mucca, capra o pecora in cui sono aggiunti i “sali di kefiran”. Questi corrispondono ad una rete di monosaccaridi, il D-glucosio e il D-galattosio più o meno in eguali proporzioni, prodotti da batteri facenti parte dei lattobacilli kefiranofaciens e kefiri i quali rimangono intrappolati nella rete glucidica formando i granuli (o sali). Il lavoro di ricerca greco, pubblicato nella rivista Food Chemistry, ha approfondito alcune delle ricerche precedenti in cui si riconosceva il miglioramento delle caratteristiche aromatiche e di texture del pane al kefir ma in questo lavoro hanno anche cercato di definire la portata temporale di tale miglioramento. In particolare il pane veniva prodotto attraverso una pasta acida come lievito madre in cui erano stati disciolti sali di kefir tra il 10 al 20%. Successivamente il pane veniva analizzato per un tempo di 5 giorni dalla preparazione e confrontato con pane prodotto da pasta acida senza i fermenti lattici. I campioni sono stati analizzati usando la tecnica della micro-estrazione in fase solida (SPME) e analizzati in gascromatografia (CG-MS). In tutti i pani, sia quelli arricchiti che non, sono state riscontrate riduzioni dei componenti aromatici ma i pani arricchiti di kefir, oltre a presentare un profilo di composti aromatici più ricco, riducevano i propri composti volatili meno rapidamente nell’arco dei 5 giorni di test. In particolare il pane arricchito con lievito al kefir al 20% ha dato i risultati migliori sia in termini di conservabilità che di miglioramento dei parametri sensoriali generali (morbidezza, aroma, gusto).

 

 

 

 

alimentech in Chimica degli Alimenti,Emulsionanti,Microbiologia Alimentare,Polisaccaridi,Processi Alimentari am Marzo 15 2022 » Comments are closed.

Acrilammide: troppa in alcune marche di patatine fritte

 

Le patatine fritte sono tra gli snack maggiormente consumati dai frequentatori di bar e cinema, per aperitivi oppure per semplice fame. Tuttavia esse, a causa di un processo produttivo inevitabile (ovvero la frittura oppure la cottura a forno), producono una sostanza pericolosa se consumata in grandi quantità: l’acrilammide.

Essa deriva dalle reazioni di Maillard che coinvolgono gli zuccheri riducenti (glucosio, fruttosio e amido), ampiamente presenti nelle patate, i quali interagiscono con alcuni aminoacidi (principalmente l’asparagina libera) in ambiente caldo e a basso contenuto di acqua (situazione tipica della frittura). Queste molecole si formano durante il ciclo di cottura ad una temperatura superiore a 120 °C ed è palesemente rinvenibile nei prodotti cotti dorati il cui colore oscilla tra l’arancione e il marrone scuro. Diversi studi hanno evidenziato che non solo l’acrilammide, ma anche il suo prodotto metabolico principale, ossia la glicidammide, possono avere carattere neurotossico, genotossico e cancerogeno. In sostanza fanno male al sistema nervoso, possono far venire il cancro ed hanno un effetto teratogeno (ovvero alterano il DNA delle cellule fetali). I dati sono ben conosciuti da diversi anni, tanto da portare già dal 1994 a far classificare tale sostanza dallo IARC (International Agency for research on Cancer) come appartenente al gruppo A2 cioè “probabile cancerogeno”. Inoltre il consumo elevato dei cibi contenenti acrilammide è sconsigliato alle persone sofferenti di colesterolo alto e diabete in quanto la molecola interagisce metabolicamente con le malattie suddette.

L’ acrilammide non è presente soltanto nelle patatine fritte ma, in misura ridotta, anche nel caffè, pane, crostini e biscotti. La doratura delle patatine già indica la presenza di questa sostanza ma da  alcune indagini è emerso che certe marche produttive hanno riscontrato una maggiore incidenza della sostanza tossica nei loro prodotti rispetto ad analoghi prodotti di altre marche.

Non a caso, uno Studio ABR (American Board of Radiology), ha analizzato i pacchetti di patatine fritte vendute nella Grande Distribuzione Organizzata dove il 50% delle marche presenta concentrazioni della sostanza superiori ai valori consigliati dalle linee guida europee. In effetti la comunità UE non indica i valori precisi oltre cui non è possibile commercializzare le patatine tuttavia esistono delle linee guida redatte dalla EFSA che stabiliscono quali sono i parametri da rispettare e che quindi sarebbe consigliato non superare (1000 mcg acrilammide /Kg prodotto). Tuttavia i dati riscontrati evidenziano un chiaro superamento dei valori rispetto a quanto raccomandato.

Le marche sotto accusa, che non rispettano le raccomandazioni EFSA, sono:

  • Amica Chips Eldorada (1290 mcg/kg)
  • Crocchias classiche terranica (1500 mcg/kg)
  • Carrefour classiche (1870 mcg/kg)

Sono in linea con le raccomandazioni EFSA:

  • Lays classiche senza glutine
  • Patasnack classica senza glutine
  • San Carlo 1936

In particolare le Lays risultano essere non solo povere di acrilammide ma anche sensorialmente migliori, più croccanti, non unte e con un sapore gustoso e caratteristico. Subito dopo le San Carlo che invece vincono sul versante qualità/prezzo.

alimentech in Chimica degli Alimenti,Processi Alimentari am Ottobre 11 2017 » Comments are closed.

Vinificazione a freddo – le nuove vie della fermentazione alcolica

Le regioni del Nord Europa e altri Paesi dal clima freddo/temperato, pur potendo essere coltivate sui propri suoli da varietà di uva adatte alla vinificazione, non riescono tuttavia a “sfornare” vini nuovi dal punto di vista aromatico e sensoriale a causa delle temperature relativamente basse che spesso compromettono irreparabilmente il processo di fermentazione alcolica. Infatti i lieviti responsabili del processo di vinificazione si attivano principalmente intorno a un range di temperature che oscilla tra i 24 e 26 °C, dunque relativamente alto. Tuttavia queste sono proprio le condizioni necessarie alla produzione dei nostri amati vini italiani, ma anche di quelli spagnoli e francesi.

vinosjpg

In Spagna è stato condotto uno studio, coadiuvato dai ricercatori dell’Università del Cadice, finalizzato alla scoperta di innovative condizioni di vinificazione adatte alla produzione di vini arricchiti di composti aromatici nuovi. Le ricerche sono state realizzate in una cantina della regione della Ribera di Duero, notoriamente una regione calda. Nei laboratori, oltre ai normali lieviti deputati alla vinificazione classica come Saccharomices cerevisae, è stato isolato anche un lievito autoctono denominato Saccharomices bayams uvarum, già noto agli esperti da una pubblicazione della rivista “Proteomic“,il quale sembra sembra sia capace di svilupparsi e fermentare a temperature relativamente basse, comprese tra i 13 e 17 °C.
Attorno ai 13 °C sembra si attivino alcune reazioni biochimiche che portano alla formazione di alcoli superiori come il fenil etanolo e i suoi acetati capaci di conferire un aroma di rosa e altri estratti come l’arancio.

Hydroxytyrosol_structure

Alle stesse temperature di attività è stata verificata un’attività proteolitica catalizzata dagli enzimi del lievito e anche essa finalizzata alla formazione di alcoli e aldeidi superiori notevolmente aromatici. Probabilmente, al lievito in questione, sono da attribuirsi le peculiari caratteristiche organolettiche trovate nei vini delle regioni spagnole in cui incide in maniera ridotta, ma non nulla, e che hanno fornito lo spunto per un approfondimento microbiologico sui vini locali.

Alla luce di ciò e attraverso gli ulteriori sviluppi della ricerca, alcune Nazioni a clima freddo come il Cile, la Nuova Zelanda e l’Europa Settentrionale, dove esiste una certa potenzialità vitivinicola, le recenti scoperte  rappresentano un’ulteriore chance per entrare nel mercato, anche mondiale, con nuovi vini dall’aroma inconsueto.

alimentech in Antiossidanti,Chimica degli Alimenti,Processi Alimentari am Marzo 19 2016 » Comments are closed.

Patatine Fritte più magre dopo Sgocciolamento Sottovuoto

Le patatine fritte sono un prodotto di culto ormai, vedere un film senza sgranocchiare patatine è come non vederlo affatto e molto spesso esse sono additate in quanto alimento superfluo e a volte dannoso per la salute umana. Le patatine fritte infatti non solo apportano nell’organismo  il carico calorico dell’amido di cui sono ricche, ma presentano anche una certa percentuale di olio e quindi di grasso. Questa combinazione le rende uno dei prodotti più calorici della dieta “mondiale”. [banner] Uno studio pubblicato sul Journal of Food Scienze ha messo in luce che specifici trattamenti pre e post cottura delle chips, possono effettivamente ridurre l’imbibizione di olio nelle patatine fritte.  In particolare la riduzione della pressione in una delle fasi post-cottura ha un  ruolo “sgassante” che facilita l’allontanamento dell’olio adeso. In particolare sono state sperimente tre specifiche varianti di cottura da confrontare con quelle di controllo.

Controllo: fruttura a pressione atmosferica (1 atm = 101,325 KPa) + sgocciolamento per 180 sec.

  1. Frittura ad 1 atm seguita dalla sua riduzione a 13,33 KPa circa 40 secondi prima della fine della cottura + sgocciolamento sottovuoto per 180 sec
  2. Frittura ad 1 atm seguita dalla sua riduzione a 13,33 KPa circa 3 secondi prima della fine della cottura + sgocciolamento sottovuoto per 180 sec
  3. Frittura ad 1 atm + sgocciolamento sottovuoto per 180 sec a 13,33 KPa dopo la cottura

Il controllo ha evidenziato un assorbimento di olio pari a 68,48 g/100 di materia secca (s.s.). La prima variante ha avidenziato la produzione di patatine più grasse del controllo (71g/100g sostanza secca). La seconda variante hanno prodotto patatine con 52,5 g/100 g ss. La terza variante invece ha dato patatine con il minore apporto di olio rispetto alle altre (32g olio/100g ss).

 

In effetti un tale risultato deriva dal fatto che la modifica della pressione prima della conclusione della cottura determina un anomalo arricchimento di olio nella massa amidacea delle patatine. Solo dopo la cottura, cioè in fase di sgocciolamento, la riduzione della pressione ha un effetto decisivo. Questo risultato può essere desunto dal naturale processo di cottura. Se si riduce la pressione prima della fine della cottura, l’evaporazione forzata dell’acqua presente nelle patate facilità l’ingresso anticipato dell’olio in quanto, in condizioni normali, la cottura è un processo di trasferimento di calore e di massa.

Il calore, durante la frittura, si trasferisce dall’esterno all’interno della patata, mentre la massa uscente è quella dell’acqua che evapora dalla superficie della patatina. Questo equilibrio viene alterato se viene applicata una pressione negativa (riduzione di pressione) prima della fine della cottura comportando un maggiore arricchimento di olio, sia rispetto al controllo che alle altre condizioni operative. Il processo di migrazione dell’olio all’interno della struttura delle patatine si acutizza dopo la frittura delle stesse. Pertanto riducendo la pressione dopo la cottura e in fase di sgocciolamento si verifica l’allontanamento dell’olio dalla superficie che in questo modo non ha il tempo di trasferirsi verso l’interno. In generale la qualità delle patatine risulta essere inalterata nelle varie condizioni di frittura ma quelle ottenute dallo sgocciolamento sottovuoto si presentano più leggere e digeribili, e possono, almeno in parte, ridimensionare il loro apporto calorico entro valori dieteticamente più accettabili.

 

alimentech in Processi Alimentari am Febbraio 22 2012 » Comments are closed.

Omega-3 per ridurre gli effetti pro-infiammatori degli eicosanoidi

Gli eicosanoidi sono molecole ormone simile che si formano a livello cellulare da una serie di reazioni enzimatiche che determinano la modificazione strutturale degli acidi grassi a lunga catena -l’acido linoleico (18:2 n-6) e acido arachidonico (20:4 n-6 ) e dell’acido linolenico (18:3 n-3), DHA (22:6 n-3) e EPA (20:5 n-3). Gli eicosanoidi che si sintetizzano a partire dagli acidi n-6 fanno convenzionalmente parte della serie n6, quelli che si formano dagli acidi n-3 fanno parte della serie n3. In particolare la serie n3 identifica molecole che presentano un’attività bio-chimica meno dannosa della complementare. Queste molecole (sia della serie n3 che n6) manifestano un’attività paracrina, ovvero esplicano la loro funzione soltanto su cellule vicine alla loro sede di sintesi e quindi non vengono trasportate dal circolo sanguigno per agire in altri luoghi dell’organismo. Entrambe le serie sono coinvolte nelle funzioni riproduttive, nelle infiammazioni, nella febbre e nel dolore associato a traumi o malattie, agli spasmi del parto, nella formazione di coaguli di sangue (trombossani) e nella regolazione della pressione sanguigna (prostaglandine), nella secrezione gastrica e in altri processi bio-chimici. [banner] Proprio in funzione di tali virtù la carenza del consumo di grassi può comportare danni all’organismo. Alcuni studi sul neonato mostrano segni clinici di deficenza (ritardo nella crescita-alterazioni della pelle) imputabili ad una ridotta assunzione di acido linoleico (18:2<1% delle calorie alimentari). Inoltre in esperimenti condotti su topi da laboratorio si è visto che un basso apporto di acido linoleico determina un aumento del rapporto acidico (20:3 n-9/20:4 n-6). Oltre al linoleico (18:2) deve essere fornito anche una buona quantità di acido linolenico (18:3) per compensare la perdita fisiologica derivante dai depositi adiposi che ne riducono la disponibiltià funzionale. Sostanzialmente gli eicosanoidi derivanti dall’acido linoleico presentano una gamma di funzioni biologiche più completa (che include anche alcuni degli inevitabili effetti negativi di cui parlavamo) rispetto agli stessi ecosanoidi formati dalla serie n-3, pertanto è bene assumere una maggiore quantità di acidi n-6 rispetto agli n-3, ed infatti ciò già si verifica nella dieta normale. Ma l’enzima ciclo-ossigenasi presenta una maggiore affinità biologica verso gli acidi n-3 tale che un incremento degli stessi riduce la probabilità che l’enzima interagisca con l’acido arachidonico (20:4 n-6), quest’ultimo infatti porta alla formazione di eicosanoidi instabili o comunque pro-infiammatori nell’organismo. Oltre a questi accorgimenti è bene integrare la dieta con vitamina E in quanto questa sembra che riesca ad inibire la formazione di eicosanoidi pro-aggreganti (ovvero molecole che incentivano l’aggregazione piastrinica e riducono l’elasticità della parete vascolare). In particolare alcuni esperimenti di Rand (1988) hanno, in topi da laboratorio, evidenziato la riduzione della produzione di trombossani TXB2 (che in genere causano la formazione locale di trombi ematici) quando i roditori venivano nutriti con olio di palma arricchito di vitamina E. I trombossani sono molecole pro-aggreganti che si sviluppano conseguentemente alla modificazione chimica dell’acido arachidonico catalizzata dell’enzima ciclossigenasi, perossidasi e trombossano sintetasi, di cui la ciclossigenasi (COX) è l’enzima scatenante. Tutti gli ecicosanoidi svolgono anche la funzione di trasmettitori di segnali chimici che collegano l’esterno con l’interno della cellula.

TBX2: trombossano B2, TXA2: trombossano A2, PGI2: prostaciclina I2; PGD2: prostaglandina D2; PGE2: prostaglandina E2; PGF2a: prostaglandina F2-alfa

 L’acido arachidonico viene normalmente rilasciato nel citosol cellulare attraverso l’attività dell’enzima fosfolipasi A2, a sua volta attivata dalla protein chinasi C. Rand ha messo un evidenza che una dieta ricca di vitamina E determina, attraverso un meccanismo non chiaro, una parziale inattivazione della proteina chinasi C rendendola incapace di trasferire lo stimolo chimico/fisico dall’esterno all’interno della cellula. In questo modo l’enzima fosfolipasi A2 riduce la proria attività riducendo quindi la genesi dei trombossani TXB. Anche l’aspirina ha lo stesso effetto in quanto inibisce l’attività dell’enzima COX. Oltre alle TXB si formano anche altre molecole come prostaglandine (PG) e prostacicline (PGI), ma i trombossani possono essere gli agenti eziologici di patologie gravi come hictus, ischemie e infarti del miocardio. Al fine di controllare la genesi della formazione molecolare dei trombossani è bene dunque seguire regimi nutrizionali che prevedano una maggiore ingestione di acidi grassi della serie n-3 (acido linolenico, EPA e DHA) in modo tale da contribuire alla formazione di molecole bioattive che abbiano effetti collaterali meno dannosi, derivanti appunto dalla serie n-3. I nutrizionisti raccomandano che:

  1. i grassi polinsaturi (n-6) devono essere il 5% delle calorie totali
  2. i grassi polinsaturi (n-3) circa 1g/die
  3. EPA + DHA (assai presenti nei grassi dei pesci): 1 g/die
  4. il rapporto n6/n3 <5:1 (nei paesi occidentali invece è pari a 10:1)

Gli acidi grassi omega 6 (o n-6) non sono un problema dal punto di vista nutrizionale in quanto la dieta comune ne apporta dosi adeguate, diversamente dagli apporti alimentari di omega 3 (o n-3) che spesso non raggiungono nemmeno la dose minima consigliata. Pertanto oltre alle normali raccomandazioni dietetiche sopperibili attraverso i pasti tradizionali esistono anche alimenti nei quali è stato aggiunto omega 3 attraverso un processo tecnologico (o dietetico) applicato direttamente alla materia prima.

[nggallery id=2]

 

alimentech in Chimica degli Alimenti,Grassi e derivati,Processi Alimentari am Febbraio 19 2012 » Comments are closed.

        Older Articles